Dobbiamo
avere chiara percezione che siamo ad uno snodo decisivo della storia della
nostra democrazia.
Siamo
cioè in prossimità di una soglia oltrepassata la quale si spalanca la strada di
una profonda e probabilmente irreversibile degenerazione dell’architettura
istituzionale inscritta nella Costituzione repubblicana.
Il
coordinato disposto fra la legge elettorale (il cosiddetto “italicum”) e la
riforma del Senato rappresentano infatti un “uno-due” micidiale che se non
sventato provocherà una inaudita concentrazione del potere nelle mani
dell’esecutivo, in dimensioni e caratteristiche non rintracciabili in nessuna
democrazia occidentale.
Da una parte, il sistema
maggioritario a doppio turno, che nel caso in cui nessuno superi la soglia del
40% prevede il ballottaggio fra le due liste che avranno ottenuto un numero
maggiore di voti.
Ciò
comporta che la lista (vale a dire il partito) che otterrà un solo voto in più
dell’altra potrà contare sulla maggioranza assoluta dei seggi e assumerà il
controllo totale del parlamento, ridotto ad una funzione ancillare nei
confronti del governo, vera sede della decisione politica: il fondamentale
principio della rappresentanza, in base al quale il voto dei cittadini ha un
eguale peso, viene totalmente stravolto.
Dall’altra, la modifica
del Senato, che verrebbe trasformato in una ridotta, composta da un centinaio
di dopolavoristi, selezionati fra i consiglieri regionali senza alcun criterio
di proporzionalità fra le regioni: una camera a cui sarebbe devoluto un
guazzabuglio di prerogative che contemplano una decina di modalità di coinvolgimento
del Senato nell’approvazione delle leggi.
Spesso
si usa dire che siamo di fronte ad una deriva presidenzialista, per metterne in
luce il carattere autoritario.
Ma
si tratta in realtà di una definizione ancora riduttiva. Perché le repubbliche presidenziali
alle quali si fa di solito riferimento (due fra tutte: quella statunitense e
quella francese) prevedono pur sempre un bilanciamento dei poteri: il
presidente non è onnipotente.
Il
progetto costruito da Renzi prevede invece che al vincitore sia consegnato
tutto: il governo, il parlamento, la presidenza della Repubblica, la Corte
costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura.
Come
ha efficacemente spiegato Alessandro Pace, il modello è piuttosto quello di un
principato.
Precisamente:
“Un blocco di potere affaristico-finanziario con propaggini piduistiche che
grazie ad una legislazione elettorale drogata potrebbe confiscare tutto il
potere per anni con il favore di una minoranza di elettori”.
E
tutto ciò –non lo si dimentichi – ad opera di senatori e deputati eletti (in
realtà nominati) grazie ad una legge elettorale che la Consulta ha dichiarato
incostituzionale:
in
definitiva, la liquidazione della Costituzione per mano di un potere
illegittimo.
Ognuno
può capire – anche in ragione dell’esperienza che si è già consumata – a quali
scopi serva questa curvatura autoritaria, questo imbavagliamento della
democrazia rappresentativa.
Ebbene,
serve a completare la svolta reazionaria che ha già fatto franare masse di
detriti sui precetti e sui contenuti socialmente più avanzati della
Costituzione: diritto al lavoro, alla salute, alla previdenza, all’istruzione,
trasformati da diritti che lo Stato deve garantire a merci che si acquistano
sul mercato.
L’espropriazione
dei beni comuni, la privatizzazione dei servizi sociali, la progressiva
spoliazione del welfare – in perfetta armonia con i dogmi liberisti che
l’Italia ha condiviso con l’Ue, con la Bce e col Fmi – non sono altro che il
progetto politico che le classi dominanti vogliono imporre a tappe forzate.
La
liquidazione della Costituzione è il passaggio obbligato per raggiungere questo
obiettivo.
E
il governo Renzi ne è l’esecutore testamentario.
A
suffragio di questa poderosa manomissione si invoca il concetto di
“governabilità”, un vero mantra nelle argomentazioni dei nostri presunti
modernizzatori.
Un
concetto tuttavia del tutto estraneo al costituzionalismo occidentale, ma che
tanto favore riscuote in un’opinione pubblica disinformata, obnubilata e
addomesticata da un martellante bombardamento mediatico.
La
tesi che si vuole fare passare è che la democrazia è un ingombro che paralizza
la decisione e condanna all’immobilismo.
Quante
volte abbiamo sentito dire: “lasciamoli governare; poi, fra tot anni, quando si
tornerà a votare, li si potrà punire o premiare per ciò che hanno o non hanno
fatto”.
Come
se la democrazia (e, a ben vedere, il compito stesso dei cittadini e dei corpi sociali
intermedi) si potesse ridurre a porre una volta tanto la scheda in un’urna per
poi consegnare tutto nelle mani del vincitore, fino al turno elettorale successivo.
A
pensarci bene e a seguire la vulgata, il massimo della governabilità consisterebbe
nella dittatura che spazza via qualsiasi intralcio e affida tutto all’uomo
della provvidenza.
Vent’anni
di spoliticizzazione di massa, coltivata dal potere costituito con amore
d’artista, hanno prodotto questo: anomia, individualismo, passivizzazione.
Parafrasando
la battuta di un famoso film di fantascienza: “E’ così che muore la democrazia:
fra scroscianti applausi”.
Pensate
a come Renzi ha presentato la partita.
Ha
detto: “Se perdo mi ritiro dalla politica”.
Un
gesto presentato come un atto di umiltà.
E
in realtà un gesto di estrema arroganza e superbia.
Un
gesto che prova a togliere di mezzo l’oggetto reale del confronto, il merito
della questione sottoposta al giudizio degli italiani, con l’obiettivo di
trasformare la consultazione in un plebiscito.
E’
come se Renzi estendesse l’istituto della fiducia (largamente abusato nel
parlamento) all’intero corpo elettorale: “O con me o contro di me; o a me tutto
il potere – senza se e senza ma, come si usa dire oggi – oppure me ne vado”.
Bene,
accettiamo la sfida, sapendo che per noi la strada è in ripida salita: mezzi
scarsi, visibilità mediatica sproporzionata, asimmetria delle forze in campo.
Anche
la macchina dei sondaggi svolge il suo poco pulito lavoro. Si sa che i sondaggi
servono più a orientare che a sondare le intenzioni dell’opinione pubblica.
Dunque
non stiamo a guardarli, i sondaggi, e cominciamo a metterci al lavoro.
L’esito
lo vedremo, ma quale che esso sia, ci sono battaglie che devono essere date,
anche quando paiono al di sopra delle nostre forze: per la posta che è in
gioco, per il futuro del nostro paese, per la nostra dignità e – guardando alla
generazione di cui anch’io faccio parte – per non portare sulle spalle l’onta
di avere permesso ad un gruppo di oligarchi e di lestofanti di cancellare il
lascito più importante e prestigioso della rivoluzione democratica e
antifascista.
Con
l’assemblea odierna decidiamo costituiamo la costituzione del comitato per il
“NO” nel referendum confermativo che, presumibilmente, si svolgerà nel prossimo
ottobre.
A
partire da oggi dobbiamo coinvolgere il più ampio schieramento di forze
politiche, associazioni culturali, sindacali, movimenti sociali, singole personalità
intellettuali in un grande lavoro di informazione, di dibattito, da portare in
ogni angolo del paese.
Facciamolo
con spirito unitario, senza inclinazioni settarie, con la sola esclusione della
destra e delle formazioni fascio-leghiste che quando è loro toccato governare
hanno fatto strame della Costituzione, sbranandone i contenuti sociali più
avanzati.
Dino Greco
Dino Greco
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