Assemblea Costituzione 28 Gennaio 2016 - Intervento finale

Dobbiamo avere chiara percezione che siamo ad uno snodo decisivo della storia della nostra democrazia.

Siamo cioè in prossimità di una soglia oltrepassata la quale si spalanca la strada di una profonda e probabilmente irreversibile degenerazione dell’architettura istituzionale inscritta nella Costituzione repubblicana.

Il coordinato disposto fra la legge elettorale (il cosiddetto “italicum”) e la riforma del Senato rappresentano infatti un “uno-due” micidiale che se non sventato provocherà una inaudita concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo, in dimensioni e caratteristiche non rintracciabili in nessuna democrazia occidentale.

Da una parte, il sistema maggioritario a doppio turno, che nel caso in cui nessuno superi la soglia del 40% prevede il ballottaggio fra le due liste che avranno ottenuto un numero maggiore di voti.

Ciò comporta che la lista (vale a dire il partito) che otterrà un solo voto in più dell’altra potrà contare sulla maggioranza assoluta dei seggi e assumerà il controllo totale del parlamento, ridotto ad una funzione ancillare nei confronti del governo, vera sede della decisione politica: il fondamentale principio della rappresentanza, in base al quale il voto dei cittadini ha un eguale peso, viene totalmente stravolto.

Dall’altra, la modifica del Senato, che verrebbe trasformato in una ridotta, composta da un centinaio di dopolavoristi, selezionati fra i consiglieri regionali senza alcun criterio di proporzionalità fra le regioni: una camera a cui sarebbe devoluto un guazzabuglio di prerogative che contemplano una decina di modalità di coinvolgimento del Senato nell’approvazione delle leggi.

Spesso si usa dire che siamo di fronte ad una deriva presidenzialista, per metterne in luce il carattere autoritario.
Ma si tratta in realtà di una definizione ancora riduttiva. Perché le repubbliche presidenziali alle quali si fa di solito riferimento (due fra tutte: quella statunitense e quella francese) prevedono pur sempre un bilanciamento dei poteri: il presidente non è onnipotente.

Il progetto costruito da Renzi prevede invece che al vincitore sia consegnato tutto: il governo, il parlamento, la presidenza della Repubblica, la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura.

Come ha efficacemente spiegato Alessandro Pace, il modello è piuttosto quello di un principato.
Precisamente: “Un blocco di potere affaristico-finanziario con propaggini piduistiche che grazie ad una legislazione elettorale drogata potrebbe confiscare tutto il potere per anni con il favore di una minoranza di elettori”.

E tutto ciò –non lo si dimentichi – ad opera di senatori e deputati eletti (in realtà nominati) grazie ad una legge elettorale che la Consulta ha dichiarato incostituzionale:
in definitiva, la liquidazione della Costituzione per mano di un potere illegittimo.

Ognuno può capire – anche in ragione dell’esperienza che si è già consumata – a quali scopi serva questa curvatura autoritaria, questo imbavagliamento della democrazia rappresentativa.

Ebbene, serve a completare la svolta reazionaria che ha già fatto franare masse di detriti sui precetti e sui contenuti socialmente più avanzati della Costituzione: diritto al lavoro, alla salute, alla previdenza, all’istruzione, trasformati da diritti che lo Stato deve garantire a merci che si acquistano sul mercato.

L’espropriazione dei beni comuni, la privatizzazione dei servizi sociali, la progressiva spoliazione del welfare – in perfetta armonia con i dogmi liberisti che l’Italia ha condiviso con l’Ue, con la Bce e col Fmi – non sono altro che il progetto politico che le classi dominanti vogliono imporre a tappe forzate.

La liquidazione della Costituzione è il passaggio obbligato per raggiungere questo obiettivo.
E il governo Renzi ne è l’esecutore testamentario.

A suffragio di questa poderosa manomissione si invoca il concetto di “governabilità”, un vero mantra nelle argomentazioni dei nostri presunti modernizzatori.

Un concetto tuttavia del tutto estraneo al costituzionalismo occidentale, ma che tanto favore riscuote in un’opinione pubblica disinformata, obnubilata e addomesticata da un martellante bombardamento mediatico.

La tesi che si vuole fare passare è che la democrazia è un ingombro che paralizza la decisione e condanna all’immobilismo.

Quante volte abbiamo sentito dire: “lasciamoli governare; poi, fra tot anni, quando si tornerà a votare, li si potrà punire o premiare per ciò che hanno o non hanno fatto”.

Come se la democrazia (e, a ben vedere, il compito stesso dei cittadini e dei corpi sociali intermedi) si potesse ridurre a porre una volta tanto la scheda in un’urna per poi consegnare tutto nelle mani del vincitore, fino al turno elettorale successivo.

A pensarci bene e a seguire la vulgata, il massimo della governabilità consisterebbe nella dittatura che spazza via qualsiasi intralcio e affida tutto all’uomo della provvidenza.

Vent’anni di spoliticizzazione di massa, coltivata dal potere costituito con amore d’artista, hanno prodotto questo: anomia, individualismo, passivizzazione.

Parafrasando la battuta di un famoso film di fantascienza: “E’ così che muore la democrazia: fra scroscianti applausi”.

Pensate a come Renzi ha presentato la partita.

Ha detto: “Se perdo mi ritiro dalla politica”.
Un gesto presentato come un atto di umiltà.
E in realtà un gesto di estrema arroganza e superbia.

Un gesto che prova a togliere di mezzo l’oggetto reale del confronto, il merito della questione sottoposta al giudizio degli italiani, con l’obiettivo di trasformare la consultazione in un plebiscito.

E’ come se Renzi estendesse l’istituto della fiducia (largamente abusato nel parlamento) all’intero corpo elettorale: “O con me o contro di me; o a me tutto il potere – senza se e senza ma, come si usa dire oggi – oppure me ne vado”.

Bene, accettiamo la sfida, sapendo che per noi la strada è in ripida salita: mezzi scarsi, visibilità mediatica sproporzionata, asimmetria delle forze in campo.

Anche la macchina dei sondaggi svolge il suo poco pulito lavoro. Si sa che i sondaggi servono più a orientare che a sondare le intenzioni dell’opinione pubblica.

Dunque non stiamo a guardarli, i sondaggi, e cominciamo a metterci al lavoro.

L’esito lo vedremo, ma quale che esso sia, ci sono battaglie che devono essere date, anche quando paiono al di sopra delle nostre forze: per la posta che è in gioco, per il futuro del nostro paese, per la nostra dignità e – guardando alla generazione di cui anch’io faccio parte – per non portare sulle spalle l’onta di avere permesso ad un gruppo di oligarchi e di lestofanti di cancellare il lascito più importante e prestigioso della rivoluzione democratica e antifascista.

Con l’assemblea odierna decidiamo costituiamo la costituzione del comitato per il “NO” nel referendum confermativo che, presumibilmente, si svolgerà nel prossimo ottobre.

A partire da oggi dobbiamo coinvolgere il più ampio schieramento di forze politiche, associazioni culturali, sindacali, movimenti sociali, singole personalità intellettuali in un grande lavoro di informazione, di dibattito, da portare in ogni angolo del paese.


Facciamolo con spirito unitario, senza inclinazioni settarie, con la sola esclusione della destra e delle formazioni fascio-leghiste che quando è loro toccato governare hanno fatto strame della Costituzione, sbranandone i contenuti sociali più avanzati.

Dino Greco

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